Un gigantesco arco di trionfo, ai piedi le aurighe e in testa un globo illuminato: così nel 1922 Saverio Dioguardi immaginava il grattacielo del Chicago Tribune partecipando al più famoso concorso di architettura dell’epoca. Oltre settanta concorrenti, compresa la «top ten» del modernismo europeo: Adolf Loos, Walter Gropius, Max Taut e Eliel Saarinen. I mostri sacri. Poi – deludendo il mondo intero – vinse lo studio locale Howell & Hood con un palazzo in stile neogotico, ma il concorso restò famoso per aver lanciato il dibattito sui grattacieli e sul posto che essi dovevano occupare nelle metropoli del XX secolo. Le città nuovissime.

Dioguardi, unico italiano oltre Piacentini, non poteva sottrarsi alla tentazione della gara americana: solo due anni prima aveva ottenuto la licenza di professore di disegno architettonico all’Accademia di Belle arti di Bologna e uno dei tre temi d’esame era appunto il palazzo di un giornale. Ma riuscirà comunque a vedere costruito un suo progetto con la sede della «Gazzetta del Mezzogiorno», in quella che allora si chiamava piazza Roma, a Bari. Un edificio che pure aveva sulla sommità della cupola una sfera illuminata (ricordo americano) e di cui oggi restano – esposti nell’atrio di Palazzo di città – soltanto i «prigioni», le statue di forzuti uomini di cemento che sorreggevano travi e pilastri.

L’abilità nel disegno architettonico, affinata alla scuola di Edoardo Collamarini, è testimoniata dalle 28 tavole originali e autografe esposte da oggi nel colonnato del Palazzo della Provincia. La mostra, curata da Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore con la direzione scientifica di Francesco Moschini, ripropone le immagini di studio e le prospettive piene di suggestione di edifici ben noti e assai cari ai baresi insieme alle prefigurazioni di opere rimaste sulla carta (e quindi pressoché sconosciute ai più) come il Palazzo del Littorio a Roma, tema di un altro concorso nazionale (1936) al quale Dioguardi partecipò in squadra con due progettisti di spicco della scena barese: Pietro Maria Favia e Marino Lopopolo.

Architetto e imprenditore, Saverio Dioguardi muore esattamente mezzo secolo fa, il 22 novembre 1962, pochi mesi prima della storica rivolta degli edili che per tre giorni sconvolse la la città. Sembra essere davvero il commiato del mondo di ieri la scomparsa della personalità che più fortemente ha inciso sulla cultura urbana del primo Novecento barese, imponendo standard di qualità sia nel disegno che nella produzione. Ma soprattutto innovando e costringendo la burocrazia e i regolamenti ad inseguire il suo lavoro. Dioguardi supera continuamente se stesso: dall’eclettismo di scuola mitteleuropea delle prime opere (da casa Dioguardi in via Crisanzio nel 1913 e palazzo Ferreri in corso Cavour nel 1917) al razionalismo della chiesa di San Ferdinando (1932) e addirittura al futurismo del Circolo canottieri Barion, l’anno successivo (ma erede di un eclettico progetto di ristorante Posillipo del 1930), fino al linguaggio convintamente funzionalista degli ultimi anni: si pensi al palazzo della Set (poi Sip, oggi sede della Banca popolare di Bari) in piazza Massari. Progetto, quest’ultimo, per il quale Saverio Dioguardi ingaggiò un estenuante braccio di ferro con la Soprintendenza ai Beni architettonici e con l’Ufficio tecnico comunale: rinunciò ad elevare una torre d’angolo, fu costretto ad attestare la vetta dell’edificio al di sotto del cornicione del palazzo della Prefettura, ma non rinnegò la volontà di imprimere con una interminabile finestra a nastro un segno di forte attualità in un contesto fragile come quello dell’affaccio di Bari vecchia sul quartiere murattiano, anzi nel luogo stesso in cui sorgeva l’antica porta della città murata, come provarono le tracce venute alla luce durante il cantiere. Il palazzo dei telefoni indicava il bisogno di pensare la città come organismo che genera la propria architettura, di demolirsi e ricostruirsi anche, ma a condizione di una progettazione di qualità, capace di prevalere sulla banale conservazione del vecchio.

In definitiva è questa visione urbana – la Stadtbaukunst di cui si nutrì negli anni della formazione – il tratto caratteristico e permanente della architettura di Dioguardi. Ne sono una testimonianza alcuni disegni in cui appaiono visioni di città con grattacieli. La sua lezione fu raccolta da una non numerosa pattuglia di architetti negli anni Sessanta e Settanta: Vittorio Chiaia e Vito Sangirardi, prima. E poi Pezzuto, Mangini, Cirielli, Ferrari. Oramai un altro universo, attraversato da nuove idee e innervato di nuovissime tecnologie, ma legato a doppio filo con il «padre nobile» della architettura barese: l’architetto che organizza in Puglia la prima, esemplare azienda integrata in cui progetto, produzione e commercializzazione trovano una sintesi organizzativa d’avanguardia.

Nicola Signorile