All’interno del programma del corso di Teoria e Tecnica della Progettazione Architettonica che sto per concludere, del quale presto saranno disponibili on-line le lezioni, ho invitato alcuni amici architetti per offrire agli studenti uno spaccato realistico della professione con una testimonianza diretta del protagonista, al di là di quello che la cultura ufficiale decide di proporci.
Ritengo sia importante per uno studente e per la formazione del suo pensiero autonomo, sapere come si svolge la carriera di una persona che decide di fare l’architetto, che è diversa da quella delle “archistar”, allegre dispensatrici di gratuite nuvolette, almeno quanto lo sia rispetto al professionista procacciatore di affari (i suoi).
Il ciclo di lezioni esterne ha avuto inizio con l’architetto Gianluca Di Vito, avellinese, attento osservatore delle “linee” che il paesaggio descrive, puntuale testimone, quasi filosofico, delle “suggestioni” che un architetto riversa nei propri progetti, ma uomo di cantiere, perché qualsiasi riflessione teorica sul progetto di architettura non potrà mai far perdere il contatto con la sua corretta realizzazione, per la quale occorre la conoscenza dell’arte della costruzione.
L’assoluta padronanza del cantiere da parte dell’architetto, che potrebbe apparire ovvia, restituisce ruolo e dignità ad un mestiere del quale non se ne capisce l’utilità.
In città nelle quali ormai da anni il “geometra condotto” risolve al meglio le inconsapevoli esigenze di una clientela che ha bisogno, in genere, solo di consegnare “le carte al Comune”, e nelle quali l’ingegnere rappresenta, giustamente, il livello massimo di professionalità da chiamare nelle grandi occasioni, la figura dell’architetto ha assunto un ruolo sempre più marginale.
Ma la colpa non è dei geometri o degli ingegneri i quali, come in qualsiasi attività, fanno del loro meglio per conquistare terreno, ma dello stesso architetto, sempre più all’oscuro delle pratiche costruttive ma circondato da un’aura di saccenza che nasconde solo una spaventosa ignoranza.
Il secondo ospite è stato il mio maestro Sandro Raffone, aquilano, cresciuto in Asmara e trasferito a Napoli per gli studi ed in seguito l’insegnamento.
La lezione di Raffone ha ribadito la centralità del ruolo dell’architetto costruttore che inizia l’opera con una attentissima lettura del luogo misurandone la topografia e individuandone le costrizioni. L’architetto, “muratore che sa il latino”, sommo conoscitore di tutte le tecniche di cantiere, in grado di istruire le maestranze e dialogare con i più esperti capomastri per trarne il migliore risultato ma che, tuttavia, scompare di fronte alla perfetta esecuzione e assenza di segni, divenuti oggi l’unico elemento distintivo della sua presenza.
La scomparsa dell’architetto, dunque, come consapevole rinuncia all’attrazione della forma a tutto vantaggio della costruzione.
Ieri pomeriggio è stata la volta di Roberto De Cosmo, molisano di Sepino, che ha dato il suo apporto mostrando il sofferto lavoro degli ultimi quindici anni, condotto nonostante le avversità di una committenza sempre meno illuminata e molto sparagnina nei confronti dell’architettura di qualità.
Una testimonianza, quella dell’amico Roberto, esemplare per tenacia e consapevolezza nell’equilibrata gestione dei materiali e degli spazi; non di poco conto se si pensa alla lotta quotidiana di un architetto normale costretto a lavorare tra i rimasugli dei professionisti il cui lavoro termina, invece, con l’acquisizione dell’incarico.
La prossima, ed ultima lezione, sarà tenuta da Alessandro Bulletti, che ho conosciuto in occasione di una conferenza intitolata “Piccolo e bello” organizzata nell’ateneo federiciano.
In perfetta sintonia con i precedenti ospiti il giovane architetto perugino mostrerà il proprio lavoro a dimostrazione del fatto che il buon costruire, la tenacia e l’amore per quello che si fa, è comune denominatore in ogni latitudine.
Raffone associati - stazione metro di GiuglianoRoberto De Cosmo - Chiesa di concorsoAlessandro Bulletti -casa studio a S. Nicolò di Celle